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OLI VEGETALI A CONFRONTO

L’olio è una sostanza lipidica e come tutti i lipidi alimentari è costituito soprattutto da trigliceridi.

 

Conosciamone le diverse Frazioni dei diversi oli

 

OLIO DI OLIVA

 

LA FRAZIONE SAPONIFICABILE

Quella dell’olio d’oliva è costituita da trigliceridi (98 -­‐99 %) semplici (≈ 55%) e misti (≈ 45%); contiene inoltre minime quantità di mono e digliceridi.

 

I digliceridi possono essere degli 1,2 digliceridi oppure degli 1,3 digliceridi. Gli 1,2 digliceridi sono i precursori dei trigliceridi e derivano quindi da un’incompleta biosintesi, mentre gli 1,3 digliceridi derivano dal processo d’idrolisi dei trigliceridi. Questo aspetto è molto importante perché il rapporto tra 1,2 digliceridi ed 1,3 trigliceridi ci dà un’idea dello stato di conservazione dell’olio. Se prevalgono gli 1,2, che come abbiamo detto derivano dal naturale processo di biosintesi, significa che l’olio è fresco, se prevalgono gli 1,3, che derivano invece dalla degradazione enzimatica, significa che siamo in presenza di un olio invecchiato. La composizione in acidi grassi

varia in relazione alla varietà dell’olivo, al grado di maturazione delle drupe, al clima e al periodo della raccolta. Vi sono tuttavia degli acidi grassi particolari che rappresentano sempre e comunque la quasi totalità degli acidi grassi contenuti nell’olio di oliva; si tratta dello STEARICO, del PALMITICO, dell’OLEICO, del LINOLEICO e del LINOLENICO.

Una caratteristica che distingue l’olio di oliva dagli altri oli vegetali è legata al suo maggior contenuto in acido oleico; negli oli di semi prevale invece il linoleico.

 

In un olio di oliva di buona qualità:

l’acido oleico non dovrebbe essere inferiore al 73%

l’acido linoleico non dovrebbe superare il 10%

il rapporto oleico/linoleico dovrebbe essere ≥ 7.

Queste caratteristiche permettono all’olio di oliva di conservarsi più a lungo rispetto a qualsiasi altro tipo di olio; la tendenza all’irrancidimento è infatti direttamente proporzionale al numero di doppi legami presenti negli acidi grassi. Mentre nell’acido oleico si registra la presenza di un solo doppio legame (è un monoinsaturo), l’acido linoleico contenuto negli altri oli vegetali contiene due

doppi legami (è un polinsaturo capostipite della serie omega-­‐6). L’irrancidimento di un olio è ostacolato anche dal contenuto in vitamina E e polifenoli; questi ultimi abbondando nell’olio di oliva ed in quello di vinaccioli.

 

FRAZIONE INSAPONIFICABILE

 

Costituisce l’1-­‐2% della componente lipidica dell’olio di oliva e contiene:

Idrocarburi

Fitosteroli,

vitamine liposolubili

pigmenti,

alcoli alifatici superiori esterificati ad acidi grassi (cere) e alcoli triterpenici

polifenoli,

 

 

OLIO DI ARACHIDE

 

Dai semi, l’olio può essere estratto per pressione o più comunemente attraverso solventi chimici. Nei prodotti meno raffinati, spremuti a freddo, possono residuare piccolissime quantità di proteine, comunque sufficienti a scatenare reazioni allergiche in soggetti ipersensibilizzati. Esaminando la composizione acidica dell’olio di arachide, spicca l’alto contenuto in acido oleico, che lo rende una scelta migliore per le fritture rispetto a molti altri oli vegetali; inoltre ne riduce la suscettibilità all’irrancidimento. Ottimo anche il contenuto in acido linoleico,capostipite dei grassi omega-­‐sei, mentre come per la gran parte degli oli di semi scarseggia l’acido alfa-­‐linolenico, capostipite dei grassi della serie omega-­‐tre. Discreto anche il contenuto in vitamina E. Queste

caratteristiche, unitamente all’assenza di colesterolo ed al ridotto contenuto in grassi saturi, rendono l’olio di arachide un valido ausilio nella prevenzione delle malattie cardiovascolari, a patto che sia consumato con sobrietà ed in parziale sostituzione dei grassi animali. Inoltre, considerata la carenza di acidi grassiomega tre, l’olio di arachidi dev’essere necessariamente inserito in un contesto alimentare sufficientemente ricco di pesce e/o di oli vegetali in cui abbondano questi nutrienti (olio di canapa, olio di canola, olio di semi di lino ed olio di cartamo).

 

OLIO DI SEMI DI LINO

 

I tipi di Linum usitatissimum L. vengono suddivisi in due gruppi: il  lino da fibra e il lino da olio. Per la produzione del lino da fibra si utilizzano i tipi nordici (che prediligono i climi temperati e umidi) mentre per la produzione del lino da olio si usano i tipi coltivati nelle zone a clima caldo.

 

La sua composizione in acidi grassi è la seguente:

acidi grassi saturi :  palmitico e stearico

acidi grassi polinsaturi: linoleico (omega 6) alfa linolenico (omega 3)

acidi grassi monoinsaturi: oleico

 

Data la notevole presenza di acido alfa-­‐linolenico, l’olio di semi di lino è spesso consigliato come ottima fonte di omega 3; in realtà, l’acido alfa linolenico è convertito in EPA (acido eicosapentaenoico) solo per una piccola percentuale (le ricerche vanno da uno 0,2 a un 8%) che

diminuisce ulteriormente in caso di cattivo stile di vita e con l’età. Da questi dati, per il non vegetariano, l’importanza dell’olio di lino è marginale come conversione EPA-­‐DHA (acido docosaesaenoico), si fa molto prima a mangiare pesce.

Uno dei problemi dell’olio di semi di lino è la difficoltà nella conservazione; questo tipo di olio infatti, tende a ossidarsi molto facilmente e il suo consumo deve avvenire entro un mese al massimo da quando la bottiglia viene aperta per la prima volta. Dovrebbe essere conservato in frigorifero, in contenitori chiusi e che, soprattutto, non lascino passare la luce. Gli oli di semi lino qualitativamente migliori sono quelli ottenuti tramite spremitura a freddo. L’olio di lino non è assolutamente adatto per friggere e deve essere pertanto utilizzato soltanto crudo (per esempio, per condire verdure o carni bianche). Buono l’apporto di vitamina E

 

OLIO DI SEMI DI MAIS

 

Dai semi del mais si ricava un olio usato per l’alimentazione umana. Ricordiamo che l’elevato contenuto di acidi grassi polinsaturi rende gli oli di semi meno stabili rispetto a quelli con un maggior contenuto di acidi grassi monoinsaturi creando quindi diversi problemi a livello di durata

e di conservazione. La composizione media in acidi grassi di un noto olio di semi di mais (l’Olio Cuore) è la seguente:

acido palmitico 12,00%

acido palmitoleico 0,20%

acido stearico 2,00%

acido oleico 28,00%

acido linoleico 56,00%

acido linolenico 0,91%

acido arachico 0,45%

acido eicosenoico 0,32%

acido beenico 0,12%

Come si vede, più della metà di acidi grassi sono rappresentati dall’acido linoleico, un acido grasso polinsaturo non particolarmente utile perché antagonista degli omega 3. Un altro luogo comune riguarda l’apporto calorico degli oli di semi; molti infatti, li ritengono oli dietetici, ma è una convinzione errata dal momento che dal punto di vista energetico tutti gli oli sono pressoché equivalenti (circa 890 kcal/100 g); ciò che inganna i consumatori è che, alcune volte, viene indicato l’apporto calorico per 100 ml. In generale si può quindi affermare che, fermi restando i vincoli calorici, l’uso di olio di semi di mais può essere una buona scelta quando lo si utilizzi per condimenti a crudo.

 

OLIO DI SEMI DI SOIA

 

L’olio di soia si estrae dai semi dell’omonima pianta, che lo contengono in misura pari al 15-­‐25% del peso a secco, in relazione alla varietà considerata, alle tecniche colturali ed alla variabilità stagionale.

 

Proprietà Nutrizionali

 

L’olio di semi di soia è ricchissimo in acidi grassi polinsaturi; spicca, in particolare, il contenuto in acido linoleico (precursore della serie omega sei ed in acido alfa linolenico (precursore della serie omega tre.

Buono anche il contenuto in acido oleico mentre rispetto ad altri oli vegetali si registra una netta carenza di vitamina E. Questa caratteristica, unitamente all’abbondante presenza di grassi polinsaturi, rende l’olio di soia particolarmente soggetto ai processi ossidativi,con conseguente tendenza all’irrancidimento precoce del prodotto.

Come tutti gli oli vegetali, anche l’olio di semi di soia contiene una piccola quota di grassi saturi, in particolare acido stearico ed acido palmitico. Discreto è  il contenuto in omega tre,grassi presenti soltanto in tracce nella maggior parte degli oli di semi; tale caratteristica,  unitamente alla ricchezza in omega sei ed acido oleico, dona all’olio di soia interessanti proprietà ipocolesterolemizzanti.Tale effetto, ascrivibile un po’ a tutti gli oli vegetali, è comunque valido soltanto quando l’olio è usato con sobrietà ed in parziale sostituzione ai grassi animali. Inoltre, è importante che l’alimentazione contenga allo stesso tempo fonti importanti di omega tre, come il pesceed il suo olio, per riequilibrare il rapporto tra questi nutrienti e gli omega sei. Nell’olio di soia grezzo si ritrovano anche discrete quantità di lecitina, anch’essa dotata di proprietà ipocolesterolemizzanti e potenzialmente utile in presenza di malattie neurologiche per la sua capacità di favorire la rigenerazione delle guaine mieliniche. Giudizi negativi possono invece essere espressi sul basso contenuto in vitamina E.

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OLIO DI SEMI DI COLZA

 

La composizione acidica dell’olio di colza è simile a quella dell’olio di oliva; i semi della varietà canola sono infatti particolarmente ricchi di acido oleico,di acido alfa linolenico. Quest’ultimo è il capostipite dei cosiddetti omega tre, acidi grassi particolarmente apprezzati in quanto

Essenziali per la buona salute dell’organismo e dotati di effetti ipotrigliceridemizzanti ed antinfiammatori. Nell’olio di colza risulta ottimale anche la proporzione tra omega tre ed omega sei, spesso sbilanciata a favore di questi ultimi per l’eccessivo consumo di oli vegetali l’insufficiente introduzione di alimenti ricchi in omega tre. Per l’elevato punto di fumo conferitogli dalla ricchezza in acido oleico, l’olio di colza (canola) può essere utilizzato anche per la frittura. In Europa, specie nella nostra penisola, l’olio di colza (canola) è in gran parte destinato all’utilizzo industriale, inclusa la produzione di biodisel; negli Stati Uniti, al contrario, è ampiamente utilizzato dalla popolazione come olio alimentare. Caratteristiche, queste, che sulla carta lo renderebbero addirittura migliore rispetto all’olio extravergine di oliva e a tutti gli altri oli vegetali, anche se va ricordato come questi ultimi, incluso l’olio di colza (canola), di regola subiscano dei processi di estrazione e rettifica con sostanze chimiche a temperature elevate. Tutti questi processi tendono a “svuotare” la frazione insaponificabile dell’olio di colza all’interno della quale oltre a sostanze indesiderate sono presenti micronutrienti importanti, come tocoferoli fitosteroli e clorofilla. Ad ogni modo, è innegabile che il peculiare profilo acidico dell’olio di colza (canola) lo renda un validissimo ausilio nella prevenzione delle malattie cardiovascolari,specie se il prodotto è usato con moderazione

 

OLIO DI SEMI DI SESAMO

 

L’olio di semi di sesamo è un olio vegetale estratto dai semi di sesamo

e possiede un aroma particolare ed gusto dei semi da cui è tratto.

L’olio di sesamo è costituito dai seguenti acidi grassi:

Palmitico

Palmitoleico

Stearico

Oleico

Linoleico

Linolenico

Eicosanoico

È comunemente usato nella cucina cinese e coreana, solitamente aggiunto alla fine della cottura per migliorare il sapore e non è utilizzato come mezzo di cottura.

 

 

Come possiamo vedere da questa breve carrellata sugli oli più importanti oggi disponibili sul mercato mondiale la scelta ideale, è ruotare spesso il tipo di olio utilizzato in cucina, poiché ogni fonte vegetale presenta le proprie peculiarità.

LA BANANA

La banana rappresenta il frutto originato dal banano, ha circa un peso di 150 gr di cui il 75% grossomodo è acqua e la parte rimanente formata da carboidrati,proteine e fibra. Le banane sono ricche di Vitamine e minerali; troviamo pro-vitamina A, vitamina B1-B2-B3 e vitamina C e tracce di Vitamina E e B6.
Il minerale più presente è decisamente il potassio ma sono presenti anche fosforo,ferro e calcio.

Spesso la banana viene descritta come frutto particolarmente calorico e quindi poco adatto a regimi alimentari ipocalorici e comunque sconsigliato perchè oltremodo zuccherino.

Cosa c’è di vero?

In realtà la banana cambia radicalmente la sua composizione in base al suo stato di maturazione, quindi come sempre la risposta è DIPENDE!

Come osserviamo dallo schema iniziale la banana passa dall’avere un 7% di zuccheri quando è di colore verdognolo a circa l’88% quando è gialla con la presenza di molte macchie nere.

La banana verde è in realtà molto ricca di amido resistente il che la differenzia notevolmente dalla tipica composizione di un frutto. Quindi invece che bandire dalla nostra dieta la banana possiamo regolarne il consumo anche in base al grado di maturazione preferendo delle banana che non hanno ancora raggiunto la loro massima concentrazione zuccherina.

CIALDA DI QUINOA E VERDURE

INGREDIENTI:

  • 1 zucchina
  • 1 carota
  • 1/4 di porro
  • 100 gr di chicchi di quinoa
  • 2 uova intere
  • 3 tuorli
  • Sale

PROCEDIMENTO:

Ho sciacquato ripetutamente i chicchi di quinoa e li ho cotti in acqua salata fino a sfaldarli. Ai chicchi di quinoa cotti ho incorporato dapprima le uova intere, poi carote e zucchine tagliate a julienne, quindi i porri tagliati a striscioline verticali e aggiustato di sale. Ho spalmato il composto su di una teglia coperta da carta da forno di modo che l’altezza fosse minima. Spennellato con 3 tuorli preventivamente sbattuti con un pizzico di sale. Informato a 180° fino a doratura. 10/15 minuti

ANORESSIA E SPORT….CONOSCERE PER CONOSCERCI

Accanto ad una corretta alimentazione e all’astensione dal consumo di sostanze tossiche quali alcool e fumo di sigarette, la pratica di una attività fisica continuativa è considerata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità uno dei principali fattori di mantenimento del benessere e di prevenzione rispetto alla comparsa di malattie organiche. L’attività fisica svolge una funzione protettiva specifica nelle coronaropatie, nel diabete, nell’osteoporosi, in alcune forme di tumore, nell’obesità, e sembra favorire anche una riduzione dei livelli percepiti di stress e facilitare la risoluzione di forme da lievi a medie di depressione ansiosa, soprattutto quando reattive ad eventi della vita. L’ impostazione di un corretto programma di attività fisica, dunque, può favorire la conservazione dello stato di benessere, e spesso facilita la correzione di alterazioni dell’equilibrio psico-fisico.

Per quanto riguarda i disturbi del comportamento alimentare, poi, un corretto programma di attività fisica può produrre effetti riabilitativi quando non curativi.
Per la sua capacità di ripristinare una relazione armonica tra le parti corporee in movimento, e favorire un’integrazione psico-motoria, e dunque un miglioramento dell’immagine corporea, l’esercizio fisico può dimostrarsi più efficace anche della terapia cognitivo-comportamentale nell’attenuare la spinta alla magrezza, sintomo nucleare dei disturbi del comportamento alimentare, e ridurre il ricorso a pratiche anomale di eliminazione delle calorie introdotte con la dieta (condotte di eliminazione). Ciò si accompagna ad un miglioramento della struttura corporea, più armonica e tonica, che ulteriormente incrementa il senso di benessere dei pazienti. Alcuni studiosi, tuttavia, sostengono fermamente che l’impegno in attività sportive nasconda o favorisca un aumentato rischio di sviluppare disturbi del comportamento alimentare. Alcune discipline richiedono infatti un particolare peso corporeo, una particolare forma del corpo, ed un allenamento molto estenuante, al fine di ottenere una performance adeguata con il conseguente adattamento della condotta alimentare alle richieste della prestazione sportiva.

Negli ultimi trenta anni, sempre più spesso sono giunte all’osservazione degli specialisti atleti che presentavano disturbi psico-fisici specificamente associati all’attività agonistica. I disturbi solitamente insorgono in modo insidioso, e possono decorrere inosservati per lungo tempo, non di rado con attribuzione del disagio da essi causato ad un generico stress da competizione. Alcuni atleti mostrano tratti della personalità comuni con pazienti affetti da disordini alimentari e le stesse caratteristiche che consentono al soggetto di eccellere nella disciplina sportiva, compulsività, carica atletica, riflessività, perfezionismo, competitività, accondiscendenza, voglia di allenarsi e automotivazione, incrementano il rischio di sviluppare disordini alimentari. Questo rischio è aumentato maggiormente in quegli atleti che, pur presentando un fisico normale, non lo trovano conforme al fisico “ideale” per lo sport da loro praticato. Tuttavia, a dispetto di alcune caratteristiche condivise, gli atleti con disturbi alimentari sembrano presentare un profilo clinico che in qualche modo differisce da quello mostrato dagli altri individui con disturbi alimentari, riportando livelli più alti di autostima, livelli più bassi di insoddisfazione generale e meno sintomi depressivi dei non atleti con disturbi alimentari. Questa differenza può sostentare le motivazioni propositive che guidano gli atleti nel loro tentativo costante di perdere peso per rientrare all’interno dei loro canoni di perfezione. La spinta al dimagrimento, e soprattutto la costante pressione a cui sono sottoposti nel ridurre la quota di grassi nella composizione della massa corporea, faciliterebbe in soggetti vulnerabili lo sviluppo di pratiche volte a modificare l’apporto calorico, scatenando lo sviluppo di abitudini alimentari profondamente alterate, anomalie del ciclo mestruale sino all’amenorrea, e un aumentato rischio di osteoporosi e fratture ossee. Per le sue caratteristiche, il disturbo può decorrere non riconosciuto per lungo tempo e l’attuazione di tali condotte alimentari anomale, ritenute ottimali per il conseguimento dell’eccellenza nelle prestazioni atletiche, può non solo farlo passare inosservato, ma addirittura  incoraggiarlo laddove l’atleta riscontri un sensibile miglioramento delle sue prestazioni. Anche la comparsa di anomalie mestruali può essere facilmente confusa con una reazione allo stress, o sbrigativamente attribuita alla ‘pressione per la competizione’. La sottovalutazione di queste anomalie cliniche è particolarmente insidiosa nella popolazione giovanile, quando il conseguimento di positivi risultati nello sport può far tralasciare l’impatto che alterazioni dell’equilibrio psico-fisico possono avere su di un corpo il cui sviluppo non è ancora completato. Particolarmente gravi possono essere le conseguenze di deficit nutrizionali di elementi essenziali, quali vitamine, ioni e minerali.
Viene così coniato il termine di anoressia atletica per indicare lo sviluppo di comportamenti abituali volti al controllo totalitario del peso corporeo. Tra queste pratiche annoveriamo il digiuno, il vomito, l’uso di pillole dietetiche, lassativi e diuretici.

Le migliori informazioni in tal senso provengono da un piccolo gruppo di studi che confrontano gli atleti che partecipano a sport che enfatizzano la magrezza o impongono restrizioni di peso, atleti che praticano sport che non enfatizzano la magrezza e gruppi di controllo di non atleti. I due studi metodologicamente più validi, uno proveniente dalla Norvegia e l’altro dall’Australia, hanno usato un disegno a due passi in cui i partecipanti venivano prima analizzati usando un questionario autosomministrato, “The Eating Disorder Inventory”, e poi  si valutavano i sottogruppi con una intervista clinica. In questo modo è stato possibile stimare la prevalenza dei disturbi alimentati in campioni ampi di atleti. Lo studio norvegese ha identificato disturbi alimentari nel 25% di donne atlete magre, il 12% nelle atlete con peso normale e il 5% nelle donne non atlete. Lo studio australiano ha concluso che è soltanto nelle atlete che competono in sport che enfatizzano la magrezza, compresi i ballerini, con il 15% di atlete di questo gruppo che evidenziano un disturbo alimentare diagnosticabile, in confronto al 2% di atlete di altri sport e l’1% delle non atlete.

Circa il 50% delle donne che presentano disordini alimentari si allena in maniera eccessiva, talvolta in modo ossessivo sviluppando una vera e propria dipendenza dall’attività fisica, cercando di dedicare più tempo possibile all’allenamento anteponendolo alla carriera, alle relazioni interpersonali e alla stessa famiglia. L’impossibilità di praticare esercizio fisico spesso sfocia in sintomi di privazione come ansia, inquietudine e sbalzi d’umore finendo per culminare in una restrizione alimentare. Tali sintomi si affievoliscono solo quando l’esercizio viene ripreso e portano il soggetto alla completa incapacità di controllare la propria vita che finisce con l’essere sottomessa alla pratica sportiva.

Comportamenti di questo tipo, accoppiati alla preoccupazione di raggiungere un fisico perfetto dovrebbero perciò rappresentare un campanello d’allarme.

Il principale sintomo di esordio in pazienti dipendenti dall’attività fisica, in molti casi è l’amenorrea, che si accompagna nel tempo a osteoporosi, causa talora di fratture ossee improvvise ed impreviste, erroneamente attribuite a sforzo o ad errori di allenamento. La associazione di questi sintomi, amenorrea, osteoporosi e disturbi delle condotte alimentari, è in letteratura indicata come “triade della donna atleta” secondo le indicazioni dell’American College of Sports Medicine, causata da uno sbilanciato apporto calorico rispetto al consumo energetico, e può comportare importanti e gravi conseguenze di natura medica, manifestandosi più spesso in sports che enfatizzano un fisico snello e leggero.

Gli studi Norvegesi ed Australiani acquistano maggior valore se si considera la presenza nei campioni presi in esame di soggetti, atleti, maschi e femmine. Analizzando i risultati si scopre che l’incremento del rischio, associato con l’essere un atleta che compete in sport che richiedono la magrezza, non è legato con l’essere esclusivamente donna. Il 5% dei maschi atleti di questa categoria ha disturbi alimentari e sebbene poca attenzione è stata data al problema alcuni studi hanno riportato un alto indice di comportamenti alimentari disturbati fra i maschi atleti in sport come canottaggio, wrestling e bodybuilding.

L’indice relativamente alto di disturbi alimentari diagnosticabili, trovati in atleti sia uomini che donne, che praticano i cosi detti “thin-build sport” assume maggior caratura se si pensa all’ampio spettro di professionisti che fanno parte di questa popolazione altamente a rischio.

Questi atleti vanno incontro ad una situazione del tutto paradossale: infatti, i comportamenti che adottano per raggiungere gli obiettivi estetici e prestazionali,  come semi-digiuno, purganti, attività fisica eccessiva, hanno realmente un effetto contrario sulla salute, sulle riserve energetiche e sulle funzioni fisiologiche, diminuendo la loro capacità di allenarsi e competere. La restrizione calorica tipica dell’anoressia nervosa e una ridotta disponibilità energetica, come conseguenza dell’uso di purganti, finiscono con l’esaurire rapidamente le riserve di glicogeno nell’organismo non rendendolo quindi disponibile come energia di pronta utilizzazione per la produzione di potenza muscolare durante esercizio aerobico ed anaerobico di elevata intensità. Quindi, anche brevi periodi di disordini alimentari possono influire profondamente sull’allenamento dell’atleta, su come compete e recupera, sull’assunzione proteica favorendo la perdita di massa magra, sull’introito di vitamine e minerali sostanze importanti per il metabolismo energetico, crescita e riparazione dei tessuti contribuendo al peggioramento della prestazione e aumentando il rischio di infortuni.

Il termine esercizio fisico “eccessivo”, introdotto dal Manuale Statistico e Diagnostico dei Disturbi Mentali (DSM-IV), enfatizza la dimensione quantitativa dell’esercizio, ma non tiene conto di quella qualitativa, una caratteristica clinica che sembra ancora più importante nel predire la psicopatologia specifica dei disturbi dell’alimentazione (DA). In realtà, nella maggior parte dei casi le due dimensioni coesistono e perciò appare più appropriato usare il termine “esercizio fisico eccessivo e compulsivo” per descrivere il tipo di attività fisica non salutare praticata da alcune persone affette da DA.[51][52]

La funzione principale dell’attività fisica nei pazienti con DA è quella di riuscire a controllare il peso e la forma del corpo, ma in un sottogruppo di casi è anche quella di modulare le emozioni, in particolare l’ansia e la rabbia.
L’esercizio fisico eccessivo e compulsivo è un’importante caratteristica clinica dei DA: precede in alcuni pazienti, in particolare i maschi, la restrizione dietetica, mantiene la psicopatologia specifica dei DA, può determinare danni fisici rilevanti e interferisce con il recupero del peso nei pazienti sottopeso. Viene definito eccessivo quando la sua durata, frequenza e intensità supera quanto è necessario per ottenere benefici per la salute e aumenta il rischio di produrre dei danni fisici e può essere eseguito in vari modi:

  1. Nelle attività giornaliere di routine (es. camminare eccessivamente, rimanere in piedi al posto di stare seduti).
  2. Nelle attività sportive (es. allenarsi oltre al piano previsto dall’allenatore o andare in palestra più volte in un giorno).
  3. In modo anomalo (es. fare un numero eccessivo di flessioni o addominali).

Viene definito “compulsivo” quando è associato al senso soggettivo di essere obbligati o spinti a esercitarsi, ha la priorità rispetto alle altre attività della giornata (es. scuola) ed è associato a sensi di colpa e ansia quando è rimandato.
L’esercizio fisico eccessivo e compulsivo può essere classificato in base alla sua funzione in due categorie principali:

  1. per controllare il peso e la forma del corpo. È la forma più comune di esercizio eseguito dalle persone con DA e può essere diviso in due sottocategorie:
  • Esercizio fisico di compenso. Usato saltuariamente per eliminare le calorie in eccesso attuali o percepite dopo un episodio bulimico. Rientra in questa categoria anche l’esercizio usato da alcuni per bruciare calorie al fine di permettersi di mangiare.
  • Esercizio fisico non di compenso. Usato in modo regolare indipendentemente dalle calorie assunte
  1. per modulare le emozioni. È un tipo di esercizio adottato dal sottogruppo di pazienti con “intolleranza alle emozioni”, un termine usato per descrivere l’incapacità di gestire in modo funzionale alcuni stati emotivi. Tali pazienti, al posto di accettare i cambiamenti del loro stato emotivo, usano “comportamenti disfunzionali di modulazione delle emozioni” per dissipare le emozioni che non tollerano o per modificare come si sentono. Comportamenti tipici includono l’autolesionismo (es. strapparsi i capelli, tagliarsi, farsi delle bruciature), assumere sostanze psicoattive (es. alcool o benzodiazepine) o, nei pazienti con DA, anche abbuffarsi, indursi il vomito o esercitarsi in modo eccessivo e compulsivo.

L’esercizio fisico eccessivo e compulsivo può mantenere la psicopatologia del DA attraverso i seguenti meccanismi:

  • Può contribuire con la restrizione dietetica alla perdita di peso e al mantenimento di un basso peso corporeo.
  • Può aumentare l’eccessiva valutazione del peso, della forma del corpo e del loro controllo. Più intenso e frequente è l’esercizio per controllare il peso e la forma del corpo più aumentano le preoccupazioni su queste caratteristiche fisiche.
  • Favorisce lo scarso controllo dell’alimentazione e gli episodi bulimici se usato come comportamento di compenso (il paziente pensa di poter consumare le calorie in eccesso introdotte).
  • Favorisce l’isolamento sociale. La maggior parte dei pazienti si esercita da solo e inevitabilmente riduce il tempo passato con gli altri. La marginalizzazione della vita sociale può contribuire ad aumentare l’importanza attribuita al peso, forma del corpo e loro controllo.
  • Può essere usato come comportamento disfunzionale di modulazione delle emozioni. In questo caso l’esercizio mantiene il DA attraverso due meccanismi che interagiscono tra loro: modulazione del tono dell’umore e controllo del peso e della forma del corpo.

Altre conseguenze negative dell’esercizio fisico eccessivo e compulsivo sono l’aumentato rischio di lesioni da sovraccarico e, nei pazienti sottopeso, un aumentato rischio di fratture e complicazioni cardiache.

 

Esistono approcci terapeutici che trattano i disordini alimentari dando ai pazienti un senso di equilibrio, scopo e futuro. La Terapia Cognitivo Comportamentale (CBT), si focalizza sull’insegnamento ai pazienti a sorvegliare e modificare le attitudini e le abitudini alimentari, cercando di ristabilire una corretta alimentazione e andando ad affrontare il problema legato ad un esercizio fisico eccessivo e compulsivo adottando procedure e strategie curative apposite.